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Buda records: 2009 

«Mi sembra che | stia portando il piffero | in esilio per sempre, la sua patria vera» [1]

L’incontro

Li ho incontrati nell’estate 2008. Erano stati invitati ai tradizionali Aperitivi Musicali del Festival Les Suds, a Arles. C’era un allegro baccano: rumore di bicchieri, di macchine lungo le rive del Rodano, le chiacchiere e i saluti dei cantanti provenienti da ogni parte del mondo… E si sono messi a suonare e a cantare. E l’intensità della loro sincerità e della loro “virtuosità” – quella “virtù” che sola riesce a trascendere la materia – ha attraversato il brusio e fatto sgorgare qualche lacrima ai più. Tutto era così giusto in loro: il loro atteggiamento e la loro musica diritti e generosi come un amico di sempre, familiari e gioiosi come un pranzo di nozze che riunisce gli anziani, i giovani e i piccoli, sotto la tavola, a imparare come si cuce un legame attraverso il sacramento, il cibo, la festa e, soprattutto, la musica. Ho pensato a Cyrano. A quel momento in cui, subito prima della battaglia, mentre tutti hanno fame e paura, lui chiama il suonatore di flauto e gli dice:

« Avvicina […] il flauto, vecchio pastore,
soffia e suona […]
le antiche arie del paese, al dolce ritmo ossessivo,
in cui ogni nota è come una sorellina,
in cui restano impigliati i suoni di voci amate,
le arie la cui lentezza è quella del fumo
che il villaggio natale esala dai tetti,
le arie la cui musica ha l’aria di essere vernacolo. »

La “coppia”

Stefano Valla si presenta dicendo: «Io sono suonatore di piffero!» come si direbbe “Io sono Presidente della Repubblica”. Ed è una superbia fondata, come si capirà da questo modesto racconto. Per coloro che non lo sapessero, il piffero è un oboe tagliato delicatamente nel bosso o nell’ebano, ornato fieramente da una penna di gallo, le cui ance doppie sono sigillate con la cera d’api. La capitale di questo strumento è Cegni, sull’Appennino pavese, all’incrocio di quattro province (Genova, Piacenza, Alessandria e Pavia), una delle quali digrada verso il mare e il porto di Genova, dove Stefano canta con il gruppo di trallalero [2] “La Squadra” di cui ha la direzione artistica. In questo villaggio hanno vissuto i più grandi maestri del genere, Giacomo Sala (1873-1962), Ernesto Sala (1907-1989) e adesso Stefano Valla e, attorno a lui, tutti gli allievi e amici musicisti che il suo talento e la sua energia hanno portato a queste vette.

Daniele Scurati, che passa le sue vacanze a Cegni fin dall’età di quattro anni, ha finito per cedere alla seduzione di questo suono ipnotico, a dispetto di un percorso musicale classico che avrebbe potuto farlo primeggiare in altri repertori. Assumendo con la sua fisarmonica il ruolo di soffio armonico, ritmico e melodico, ha scelto di formare con Stefano l’altra metà della coppia, come viene chiamato qui questo tandem, senza il quale nessuna festa degna di questo nome potrebbe aver luogo.

Il titolo

Per rendere conto della ricchezza del repertorio strumentale e vocale di questa regione e del dinamismo della ricerca che Stefano e Daniele hanno condotto sulle forme della sua creatività, i due amici hanno registrato un primo album dal titolo “E prima di partire“, e poi un secondo, “Segni“, quelli lasciati dagli antichi a indicare il cammino. Questo terzo album, “Per dove?”, continua il viaggio nel tempo, sulle orme della tradizione e delle piste che esse aprono a nuovi sviluppi. Da dove e per dove? Così si pone la questione. Da dove cominciare la storia di questo suono che è il marchio acustico della regione?… Un suono uscito da quest’oboe e da una fisarmonica, che fa ridere e piangere, cantare e ballare tutte le generazioni… Un suono che Stefano Valla e Daniele Scurati, portatori di una tradizione sempre viva, hanno elevato, a forza di ricerca, d’amore e di “trasfigurazioni”, a tal punto di perfezione da raccogliere l’approvazione di tutti, vecchi e giovani… Un suono sollecitato in occasione delle feste maggiori di questo minuscolo angolo di paradiso, che gli attribuisce tanta importanza quanta ne riceve sulle scene internazionali, dove suscita altrettanta commozione. Poiché, come i bambini ipnotizzati dal suonatore di flauto di Hamelin, nel racconto dei fratelli Grimm, non c’è dubbio che, seguendo questo suono, si sarà trasportati in una storia che supera di gran lunga le frontiere di questo quadrato magico di colli e monti, di villaggi adagiati in ogni piega delle valli, di vigne e di boschi che cerbiatti, volpi e lupi attraversano serenamente…, di strade dalle curve intagliate che ricordano le figure ornamentali del piffero. Non c’è dubbio che, tirando questo filo dorato, crepitante di armoniche acute, si solleveranno gli strati antichi e recenti di un angolo di mondo che, grazie alla sua ricchezza ecologica e musicale, figura nella lista dei tesori “del patrimonio mondiale dell’umanità”. Ed è senza dubbio perché i valori umani sono qui così straordinariamente preservati che questa musica non si è mai cristallizzata in un repertorio museale da rianimare, come succede in altre parti del mondo. Stefano dice che, se la trasmissione di questa eredità spirituale non si facesse con altrettanta tenerezza e intimità, la tradizione resterebbe lettera morta. Diventerebbe materiale. Al contrario la tradizione è molto vivace perché, anche nell’Italia della televisione commerciale e dell’americanizzazione, in questi luoghi non si può nemmeno pensare ad una festa senza la coppia piffero/fisarmonica. D’altronde, oggi si celebra l’unione di Serena e Stefano (un altro), ed è naturalmente La Coppia – “i migliori” mi dicono in disparte – che accompagnerà la fidanzata in chiesa. Sarà La Coppia che accoglierà la giovane sposa per suonarle e cantarle un repertorio che racconta più di separazione che di unione, facendo piangere più di qualcuno al ricordo delle proprie nozze.

Ed è ancora il duo che, come un membro fondamentale della famiglia, parteciperà al pranzo alzandosi di tanto in tanto per intonare un canto di circostanza prima di aprire il “ballo”, punto culminante della festa che vedrà alternarsi valzer, mazurche, polche, piane e alessandrine, danzate da tutti quanti conoscano i passi. Perché la serietà profusa nella realizzazione sembra averla vinta su ogni altra considerazione. Le donne ballano volentieri insieme, così come i giovani invitano i più anziani. Non ci si sofferma a guardarsi, è la bellezza del gesto che si cerca e il piacere che se ne ricava è attribuito ai musicisti, che vengono ringraziati con un applauso dopo ogni danza. Quelli che non hanno ballato hanno apprezzato, dal momento che qui pare che tutti conoscano il repertorio musicale, coreografico e vocale. Così Stefano mi indica una signora matura dalla voce eccezionale. Appena arrivata, intona un canto perturbante, affrontando ancora una volta il tema doloroso dell’emigrazione, che è al centro della storia di questa regione. Per sostenerla in questa narrazione cantata, il marito, seduto accanto a lei, propone una voce bassa, mentre Stefano, Daniele e altri tra i presenti, imbastiscono una polifonia sottile e piena di affetto attorno al suo canto, lasciando sempre uno spazio per chi volesse condividere questo momento. E da questa signora seduta dritta dritta con lo sguardo lontano scaturisce un suono di cristallo, che riconosco essere lo stesso del piffero. E capisco come la nonna di Stefano abbia potuto trasmettergli non soltanto il repertorio, ma anche la postura e lo spirito che risplendono in questo suono. Stefano Valla mi dice “è così che bisogna cantarlo qui!”. È il suono della regione che schizza come un laser, poi si torce in “nodi”, gira attorno ai danzatori e fa loro alzare i piedi fino a farli sembrare degli elfi alati, uomini e donne di ogni età. Capisco anche perché Stefano parli di vocalità, di linguaggio. C’è un soffio che passa attraverso l’ancia doppia e diventa la voce del pifferaio, egli stesso una reinterpretazione della voce di coloro che gli hanno trasmesso i canti.

« Quando […] suonava il piffero, mia zia […] ascoltava attentamente per sentire se suo figlio spingeva i suoni fino alla loro perfetta solitudine» [1]

La memoria viva e la voce del piffero

«Noi siamo suonatori di tradizione. Il nostro ruolo è di perpetuare questa tradizione vivificandola costantemente. Fin dall’inizio la nostra domanda è stata come conservarla senza imprigionarla, come proteggerla e farla evolvere». È una domanda che incontrano tutti i musicisti che sono oggi depositari di una tradizione e di quello che essa veicola in termini di valori, storie, lingua, riferimenti, identità; di tutti i musicisti che vogliono, al tempo stesso, liberare la dimensione universale e atemporale insita in questa memoria viva, permettendo di tessere, attraverso il suono, dei fili magici tra genti ed epoche anche molto lontane tra loro, in virtù di questo linguaggio costantemente reinventato.

«La nostra musica è legata a una lingua, ad una espressione vocale e strumentale che sono entrambe intimamente intrecciate, poiché il suono dell’una è spesso lo stesso dell’altra. È la nostra identità acustica, la nostra memoria collettiva. Ciò detto, come ogni linguaggio, anch’esso evolve». Così il grande Giacomo Sala aveva già condotto il vocabolario del piffero altrove rispetto al suo maestro. Si dice, per esempio, che è lui ad aver avuto l’idea di cambiare la cornamusa che accompagnava il piffero con la fisarmonica. (Tuttavia, da quando il grande liutaio e suonatore di cornamusa Bernard Blanc si è stabilito a Cegni e comincia a inoltrarsi in questo repertorio, sembrano prospettarsi nuove alleanze.) Dal canto mio, cerco di spingere sempre più lontano le possibilità idiomatiche di questo strumento, conservando tuttavia “il suono e la voce del piffero”, come dicono i vecchi che mi accordano questa parentela con la tradizione e accolgono con benevolenza le nostre innovazioni. Io e Daniele, infatti, abbiamo spinto le ricerche dei nostri predecessori tanto sul piano musicale che organologico, facendo costruire e adattare degli strumenti che potessero produrre ciò che io chiamo “la mia voce”. Una vocalità che del resto è possibile solo se può appoggiarsi alla fisarmonica e formare assieme un’entità sonora così perfetta come il connubio di due anime. Perché la fisarmonica che accompagna il piffero deve sapere tutto del modo in cui il suo compagno articola il proprio pensiero e linguaggio musicale. In qualche maniera, la fisarmonica è la sua prima respirazione, quella che lancia il soffio canalizzato nell’ancia doppia dell’oboe, il quale, una volta ancora, è un altro paio di corde vocali. La fisarmonica lo spinge, l’attende, lo circonda con i suoi accordi creando un alone d’armoniche nel quale il piffero si disintegra. Un po’ alla maniera delle polifonie della nostra regione.

«Apriva la fisarmonica come se aprisse la bocca del vento, come rischiando un soffio troppo potente che poteva spazzare via tutto. Per ammansire quella bestia pericolosa si dedicava anima e corpo in strepitosi abbellimenti, la teneva buona correndo su e giù per tasti e bottoni finché il soffio del mantice non si calmava in un respiro amichevole» [1]

«Avrei potuto imparare solo il piffero, ma la fortuna ha voluto che abbia potuto lavorare con il maestro incontestato del repertorio, Andrea Domenichetti detto Taramla, che era fisarmonicista. È lui che mi ha dato la vera coscienza dell’importanza di ciascuno in questa coppia, così che io e Daniele siamo potuti arrivare assieme a una dimensione di questo suono e che il linguaggio del piffero e della fisarmonica, veicolo della nostra memoria collettiva, può parlare anche del nostro presente e del nostro futuro.»

Perché il piffero racconta. La sua voce si apre, si chiude, piange, ride, apostrofa, insiste, si insinua nel cuore e nel corpo, mettendolo inesorabilmente in movimento. E attraversa le parole per raggiungere un punto nello spazio al di là dello spazio. Stefano dice che, quando lui e Daniele suonano, entrano in un altro stato, tra il soffio, il ribollio di immagini, di figure sonore e il ritorno delle emozioni che esse suscitano…

«Benché intervenga essenzialmente in occasione dei matrimoni, delle feste patronali o dei carnevali, il piffero, a mia conoscenza, non è associato al religioso. Ho sempre avuto la sensazione che questo suo ruolo nelle celebrazioni rituali dipenda dal fatto che esso canalizza il soffio vitale e diventa linguaggio al di là del linguaggio, dalla sua dimensione mistica, un po’ come il ney, il flauto in bambù dei dervisci.»

« Ti voglio raccontare una storia intima. Mentre ritornavo dalla casa del mio maestro con una melodia che mi aveva insegnato e che trovavo tanto preziosa quanto perturbante, la ripetevo continuamente senza posa, avendo tuttavia paura che si trasformasse in qualche cosa di vivo. Ho sempre avuto la sensazione che il soffio, diventato suono, potesse donare la vita, creare il passaggio tra gli assenti e i presenti. È forse per questo che il piffero fa la festa, ma non è mai gioioso ».

«Per attraversare la quantità ci vuole una religione» [1]

Martina A. Catella
traduzione italiana Anna Consonni

Note

1. Tutte le citazioni sono state prese dal libro “Un pieno di super” di Angelo Lumelli, p. 112, 119, 120, 134.

2. Il “trallalero” è uno stile di canto maschile polifonico e popolare (si dice infatti che fosse il canto degli scaricatori del porto) nato in una città industriale e ancora ben radicato.

“La Squadra” : CD Buda n. 92514, CD Buda n. 92728.
Stefano Valla & Daniele Scurati. Volume 1 : CD Buda n. 1983102.
Stefano Valla & Daniele Scurati. Volume 2 : CD Buda n. 3017171.

Il repertorio

I brani di quest’album sono stati selezionati all’interno di un vastissimo repertorio tradizionale, lasciando da parte anche quattro composizioni originali. La maggior parte dei titoli è costituita da danze, perché questa è la funzione essenziale della nostra “coppia”, ma ci sono anche canti d’amore e canti di storia, in particolare sull’emigrazione, esperienza comune di tutte le famiglie di questa regione.

1: Alessandrina cache cache

Questa danza, ancora oggi molto popolare, deve il suo nome all’origine piemontese. Si danza in cerchio, la cui dimensione può variare, formato da coppie che alternano un uomo e una donna. La sua struttura è la seguente: A = un giro; BB = si formano delle coppie che realizzano insieme sul posto delle figure con i piedi; A = si riforma il cerchio; la sequenza A, BB, A si ripete all’infinito.

2: Marcellina (Pianta verdolina)

È una delle canzoni che mi ha trasmesso una signora, Zulema Negro di Cosola, un villaggio che appartiene ad un’altra valle, e che io e Daniele abbiamo messo in musica. Marcellina è una ragazza che, credendosi tradita, piange e rifiuta di lavorare mentre invece il suo innamorato afferma di amarla e di non aver mai incontrato un’altra così carina!

3: Valzer in Gennaio

Ho impiegato molto tempo per permettermi la libertà di creare altre composizioni, diverse da quelle che mi erano state confidate. “Valzer in gennaio” è una scommessa che ho fatto con me stesso. Scrivere un valzer ispirato a ogni mese dell’anno.

4: Alessandrina Do La

Un’altra versione della danza.

5: La neve va con il sole

C’è un solo piffero, come un’improvvisazione libera che fa intendere tutti i colori dello strumento, che ho immaginati mentre la neve si scioglieva. Da qui il suo titolo: la neve se ne va con il sole.

6: Polca in La minore

È questa la famosa melodia che ho imparato dal mio maestro e alla quale non osavo metter mano per paura di vederla trasformarsi in qualcos’altro. Quando il mio maestro e mia nonna, le persone che mi hanno trasmesso questo repertorio, sono mancate, ho dovuto incarnarle e ho finito per suonare con loro.

7: Alessandrina in Re

Questa composizione, che assomiglia a un piccolo preludio di Bach, propone una struttura assai complessa e dei cambi di tonalità assolutamente inattesi. Giacomo Sala diceva che era “un’alessandrina arrabbiata, in cui l’energia del ritmo della fisarmonica e la melodia del piffero litigavano tra di loro”. In effetti, questo gioco tra le armonie proposte e le tensioni modali è un forte stimolo per i danzatori e mi commuove profondamente.

8: Piana

Si danza in cerchio con la particolarità che, quando l’acuto si fa intendere, i danzatori si riuniscono al centro ed emettono un grido. Senza dubbio una forma piuttosto arcaica. Le melodie delle piane sono sempre molto interessanti, ma questa è particolarmente contorta, se non impossibile da cantare. Tutto il nostro repertorio è trasmesso e memorizzato localmente. Se non sei capace di cantare quello che suonerai (compresi dei micro-intervalli estranei al sistema tonale, delle figure ornamentali ecc.) non riesci a ottenere un risultato convincente. Mi ci è voluto del tempo per venire a capo di questi piccoli moduli trasformabili e ipnotici.

9: Il Sirio

Era il nome di un battello partito da Genova per l’America e affondato presso le coste spagnole nel 1906 facendo più di 500 vittime, perché si era fermato a prendere degli emigrati clandestini! Questo tema è purtroppo sempre di attualità.

10: Polca Ernesto

Un pezzo importantissimo, in tre parti, che Ernesto Sala suonava in modo brillante.

11: Mazurca “Per Tilio”

È una composizione di Daniele dedicata ad un amico fisarmonicista che gioca anch’esso con il cromatismo. È costruita su una successione di moduli corti che si aprono su dei piccoli spazi di improvvisazione, struttura che non appartiene alla tradizione.

12: Occhi neri

Questa canzone, che è normalmente un assolo che è stato armonizzato esplorando in parte il modello delle polifonie della nostra regione, è cantato tradizionalmente alle ragazze, durante il cammino che percorrono dalla loro casa natale al luogo delle nozze. A dispetto della situazione, questi canti sono spesso piuttosto atroci: spose assassinate, coppie separate, come per esorcizzare in anticipo la sventura che potrebbe abbattersi sulla coppia. Tutto è fatto per far piangere. Le cose sono cambiate ora, ma nel passato non era raro che le ragazze fossero date in moglie a un vecchio, tornato dall’America con un piccolo gruzzolo. D’altra parte il tema delle “spose forzate” fa parte di un importante patrimonio di canti piemontesi, i cui testi sono stati raccolti da Costantino Nigra, mentre le melodie sono sopravvissute grazie alla memoria dei nostri vecchi e del piffero.

13: Sestrina

È una danza antica, che è stata abbandonata, ma che i suonatori di piffero hanno utilizzato come melodia di strada per accompagnare cortei e processioni. La suono da molto tempo con Daniele, ma è la prima volta che la registriamo.

14: Mazurca “Dau pien d’alàs”

È originaria del Piemonte. A differenza di altri brani, ho preferito suonarla in un modo quasi lineare, piuttosto che ornarla, per preservarne la malinconia. È questo contrasto tra la gioia e la malinconia che commuove alle feste. Quando si parla di un buon musicista si dice “che fa piangere” ed è questa la felicità!

15: Vieni bella

Questo canto è di solito una polifonia a più voci. Ma noi abbiamo pensato che due voci e una fisarmonica basterebbero per questa serenata amorosa che dice semplicemente “esci sul balcone, vieni con me, ascoltami cantare!”

16: Valzer in Settembre

Un altro valzer di stagione che ho composto io.

17: Il vecchio e il bambino

Questa canzone di Francesco Guccini, il nostro Brassens, mi commuove particolarmente perché parla della memoria e del futuro, nella relazione tra una persona anziana e un bambino. È una canzone che rievoca delle cose che ho visto cambiare, la difficoltà di comprendere la storia, di pensarla come una realtà e non una fiaba. Rende omaggio a coloro che ci hanno trasmesso il passato.

18: Polca Didl di

Ho cercato di comporre una melodia molto allegra con dei ritmi e degli accenti un po’ beffardi. D’altra parte, nelle feste, tutti si alzano per danzare questa polca.

19: Giga a quattro

Si tratta di una danza piuttosto nobile nel nostro contesto popolare. È realizzata da quattro donne e due uomini. La donne, dopo una presentazione, formano un quadrato; segue un ballo che prevede dei cambi di posto all’interno del quadrato. Abbiamo registrato questo pezzo mentre degli amici lo ballavano!